Cavalcavia Bacula

giugno 20, 2009

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Quando sono arrivato al cavalcavia Bacula, tra piazza Stuparich e piazzale Lugano, pochi giorni dopo lo sgombero, c’erano ancora persone sotto le arcate. Mi hanno raccontato che fino ad allora avevano dormito all’aperto, accanto all’insediamento distrutto, e che stavano per partire per la Romania come anche tanti altri stavano facendo. Molti invece avevano deciso di restare a Milano e si erano sistemati in zona Lambrate e in un edificio abbandonato a pochi passi dal cavalcavia in piazzale Lugano. Ci sono stato, al secondo piano alcune famiglie avevano organizzato una “casa” con dei materassi, un tavolo recuperato e tre tende da campeggio. 

 

Per anni quest’area, alla periferia nord di Milano, ha ospitato diversi insediamenti abusivi di rumeni di etnia rom, più volte sgombrati e più volte risorti.

 

Quell’area l’abbiamo sgomberata quattro volte, mi avevano raccontato a dicembre i responsabili del Nucleo problemi del territorio della Polizia locale di Milano. Abbiamo detto in modo chiaro all’Amministrazione che per mettere in sicurezza il cavalcavia Bacula bisognava costruire un muro di cemento armato. Dopo lo sgombero dell’anno scorso, sotto il ponte il Comune ha  messo dei dissuasori “New Jersey” di due metri in modo che l’area non venisse occupata di nuovo. In realtà hanno usato i dissuasori come letti… Hanno sfondato il muro che divide il cavalcavia Bacula dal C.A.M. (Centro Aggregazione Multifunzionale) del Comune di Milano, che ospita anche una scuola materna. Vanno nel giardino della scuola e si lavano alla fontanella, defecano, stendono i vestiti e fanno il barbecue. 

 

Il 31 marzo 2009, dopo una campagna mediatica durata più di un mese che dava voce agli esposti degli abitanti del quartiere e denunciava l’emergenza igienico-sanitaria del campo, l’illegalità che vi proliferava e i conseguenti problemi di sicurezza, il Comune di Milano ha per l’ennesima volta sgombrato l’insediamento.  Questa volta, però, seguendo le indicazioni della Polizia locale, dopo lo sgombero, l’area è stata “messa in sicurezza”. L’accesso all’area sotto una parte del calvalcavia è stato chiuso con una recinzione in ferro alta tre metri; il terrapieno in pendenza da cui si scendeva dal cavalcavia nell’insediamento è stato sbancato e ora è una sorta di muro di terra alto qualche metro; l’arcata  del ponte sotto cui sorgeva l’insediamento più piccolo è stata chiusa utilizzando la terra ricavata dallo sbancamento. 

 

Prima dello sgombero il Comune aveva offerto dei posti letto nei dormitori pubblici per le donne e i bambini, come era avvenuto già in passato. Ma la proposta prevedeva che le famiglie si sarebbero dovute dividere, così tutti hanno rifiutato. Le associazioni che avevano lottato perché si trovasse una soluzione abitativa per gli abitanti, sono riuscite a sistemare 25 persone – le famiglie  con figli che vanno a scuola – alla Casa della Carità, e una famiglia con una figlia disabile nel campo comunale di via Triboniano. Per tutti gli altri, almeno duecento persone, non ci sono state iniziative. 

 

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Dopo che i giornali hanno dato la notizia dell’imminente sgombero, sono ritornato più di una volta a visitare la baraccopoli per documentare cosa stava succedendo e capire quali erano i motivi che rendevano urgente l’intervento delle forze dell’ordine. Ho così raccolto diverse testimonianze.  

 

Sunita abitava in una piccola baracca, fatta di materiali di scarto e rivestita di stoffa. La prima volta che l’ho incontrata erano le tre del pomeriggio e si trovava insieme alla famiglia all’interno della baracchina. Aveva in braccio il figlio di tre anni, la suocera era sdraiata sul letto insieme alla figlia e al suocero che dormiva. 

Mio marito, mi ha raccontato Sunita, è scappato con un’altra donna e io sono rimasta qui con mia suocera. Se vuole tornare io l’aspetto. 

La loro baracca era isolata rispetto alle altre e si trovava nel campo antistante il cavalcavia, addossata al muro che separa questo spazio dai binari delle ferrovie Nord. Era costituita da tre moduli di due metri per tre: in uno c’era la cucina e negli altri due i letti. 

Se ci sgombrano porteremo con noi solo le coperte e i vestiti, il resto lo lasceremo qui, non abbiamo la macchina. 

Quel giorno sono rimasto a parlare con loro per un po’. Mi hanno raccontato che la casa che avevano in Romania l’avevano venduta dopo la morte del figlio maggiore per pagare il funerale e che l’anno scorso era morta la figlia di Sunita, dopo solo quarantatre giorni di vita. Abbiamo fatto il funerale al campo di via Triboniano, dietro il cimitero maggiore. Vivevano facendo l’elemosina. Mentre Student, il capo famiglia, non lavorava e si occupava di accompagnare i figli di otto, dieci e tredici anni a scuola. Oggi ho guadagnato solo cinque euro. Mia suocera non ha raccolto nulla perché la polizia l’ha cacciata via. Esco tutte le mattine alle sei per arrivare solo alle 8.30, non ho soldi per pagare il biglietto e i controllori mi fanno scendere continuamente. Vado a Bollate, Varese, Cittiglio, Gavirate. A Milano no, perché non ho un posto dove stare. Mi fermo davanti a un supermercato, una chiesa o un cimitero. Il massimo che ho raccolto in una giornata sono stati 25 euro. Oggi tutti mi dicono che sono in crisi.


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Vasil un uomo silenzioso con l’aria seria, parlava un buon italiano. Mi ha raccontato che è arrivato in Italia nel 2002. Perché hai scelto l’Italia?, gli ho chiesto. Per la lingua. Sapevi che saresti andato a vivere in una baraccopoli? No, prima di venire in Italia sono stato sei mesi in Spagna e ho abitato in un appartamento in affitto. E in Italia? I primi mesi ho abitato a Triboniano (una grande baraccopoli abusiva alle spalle del Cimitero Maggiore), appena ho trovato un lavoro

sono andato via dai campi e ho preso un appartamento in affitto e finché ho avuto un lavoro sono stato in appartamento. Poi, per forza di cose, non avendo più soldi, ho lasciato l’appartamento e sono ritornato a vivere in un campo.  

Vasil mi ha raccontato che l’appartamento si trovava a Sesto San Giovanni, era composto da due stanze da letto, un soggiorno, una cucina e un bagno e che pagava 650 euro di affitto. Abitava insieme alla moglie e ai quattro figli che l’avevano raggiunto in Italia appena lui si era sistemato. E che poi era rimasto solo con la moglie. I figli dopo aver lasciato la casa erano ritornati in Romania. Ho una figlia di 27 anni sposata con due figli, una figlia di 23 anni e uno di 22 che vanno all’università e un’altro di 13 anni che va anche lui a scuola. In Romania ora vivono in una casa in muratura con un giardino piccolo che ho comprato nel 1989. Vasil ne parlava con orgoglio.

A Milano la sua baracchina si trovava insieme ad altre otto sotto uno delle campate del Cavalcavia Bacula. Era grande due metri per tre, al suo interno c’era spazio solo per il letto. Anche la sua era fatta con assi di legno e interamente rivestita di stoffa. Aveva una piccola finestra per fare entrare un po’ di luce naturale. 

Vasil chiudeva con un piccolo lucchetto la sua baracchina. Anche se il campo era abitato da persone del suo stesso villaggio probabilmente non si fidava di loro. Si sentiva diverso e fuori luogo, non amava vivere in quelle condizioni.

Mi capitava spesso di incontrarlo insieme alla moglie seduto su un telo nel grande spazio all’aperto su cui si affacciavano i due insediamenti abusivi. 

Questo luogo che tutto l’inverno era stato utilizzato come passaggio e come deposito per la spazzatura era diventato con le prime giornate di sole anche un luogo di ritrovo dove si riunivano in piccoli gruppi alla luce del sole. Dopo un inverno passato sotto i ponti, nascosti e protetti, gli abitanti di questa baraccopoli erano tornati alla luce, visibili e di nuovo ingombranti. 

 

Marco abitava poco distante da Vasil. La sua baracchina era appena fuori dall’arcata del ponte in un punto in cui le case di legno formavano un piccolo slargo sempre affollato di gente, seduta davanti alle proprie baracche, che passava la giornata chiacchierando, bevendo una birra o mangiando carne o ciorba, una zuppa che le donne cucinavano sulle braci. 

Quando ho conosciuto Marco era il compleanno di suo figlio piccolo e l’ho accompagnato a comperare una torta per festeggiare l’evento. Mi ha raccontato che il giorno dopo il figlio e la moglie sarebbero partiti per la Romania perché, in vista dello sgombero, era diventato troppo pericoloso restare lì.   

Lo incontravo spesso seduto con altri in quella piazza informale ed era tra quelli che parlavano di meno. Quando gli ho chiesto di raccontarmi la sua storia, lui che non voleva farla sentire agli altri, si è alzato, ha afferrato un tavolo e mi ha chiesto di seguirlo. Dieci metri più in la ci siamo messi attorno al tavolo, in piedi, e ha iniziato a raccontare. Sono arrivato in Italia quattro anni fa. Prima ero da solo poi è venuta mia moglie e mio figlio. Ho cinque figli, uno di 22 anni, sposato. Abitano in Romania in una roulotte che ho comprato qualche anno fa. Prima abitavo nella casa di mio padre. Quando è morto, la casa è andata al più piccolo dei miei sei fratelli. Lavoro solo due ore alla settimana in una trattoria. 

Il suo racconto però è stato interrotto quasi subito da due ragazzi che si sono avvicinati e hanno iniziato a parlare con me. Uno di  loro voleva chiamare il suo datore di lavoro, l’altro invece voleva farmi vedere un documento. Marco era infastidito ma non è riuscito a respingerli. Non ci siamo più visti. 

 

Flora abitava nell’insediamento più popoloso sorto sotto la grande piastra di cemento del cavalcavia. Era tra le poche persone che erano tornate subito dopo lo sgombero del 4 luglio a riabitare il ponte. Dormiva con i figli su dei materassi sistemati tra i dissuasori.

Poco prima dello sgombero le baracchine sotto il ponte erano decine. Così piccole da contenere appena un letto e una stufa. Siamo in tanti e c’è tanta sporcizia, raccontava Flora.  Il vostro paese, la vostra terra ci hanno trattato tanto male. L’altra sera c’era tanta gente che urlavano e gridavano. Mio Marito la notte non dorme più perché ha paura che bruciano qualcosa. 

La Lega Nord avava organizzato un corteo di circa cinquanta persone contro l’insediamento abusivo.

Dopo il primo periodo in cui dormiva sui materassi Flora aveva costruito anche lei la sua baracchina, all’esterno della quale c’erano tante cose raccattate in giro: un frigobar, un frigorifero, una cucina  a gas, una pila di batterie, sedie e divani. L’ultima volta che l’ho incontrata, Flora si trovava ancora nello stesso punto dell’insediamento, dove il ponte confina con il parco del Centro di Aggregazione Multifunzionale (C.A.M.) di via della Pecetta. La parrocchia di Santa Elena ci ha aiutato molto, mi ha raccontato. Nessuno conosce meglio di me Don Matteo. Faccio l’elemosina davanti la sua chiesa. Al centro di ascolto prendo da mangiare una o due volte al mese. Mi caricano la bombola.


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A Bacula ero stato la prima volta il 4 luglio 2008, dopo uno dei tanti sgomberi che questa comunità, proveniente dalla città romena di Draganesti-Olt, ha subito. Anche allora l’insediamento era stato completamente distrutto e l’area era stata bonificata dal Comune di Milano. E anche allora, pochi giorni dopo, qualcuno era ritornato in Romania e qualcun altro era già ritornato ad abitare l’area.

 

Da quando il Comune ha inagurato la “politica della sicurezza” il copione è sempre lo stesso. Il nucleo problemi del territorio della Polizia locale di Milano monitora il territorio, scheda le occupazioni abusive sparse per la città, e valuta quando è urgente predisporre lo sgombero. L’amministrazione comunale, ora in accordo con il prefetto-commissario all’emergenza rom, avvia una campagna mediatica che ha due obiettivi: dimostrare l’azione del governo e comunicare agli abitanti che dovranno andare via, da soli o con la forza. A quel punto, naturalmente, le associazioni che operano all’interno del campo lanciano il loro appello, e denunciano le condizioni di degrado e inumanità in cui sono costretti a vivere i rom a Milano.

L’opinione pubblica si convince che il problema si sta risolvendo ma in realtà i rom continuano ad andare e venire dalla Romania e a vivere illegalmente in città.

sp

 

 

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