Casa e cittadinanza a Milano

giugno 14, 2008

di Stefano Boeri, Maddalena Bregani, Salvatore Porcaro (1)

1. Accampamento Milano

1.1. Abitare temporaneamente

La cronaca locale di Milano, ogni giorno, ci racconta di anziani che ospitano temporaneamente studenti univesitari in cambio di piccoli lavori domestici; dell’aumento delle auto-dormitorio per i senza-casa; del mercato nero dei posti letto a rotazione per i migranti cinesi o sudamericani; della crescita di bed and breakfast e di agenzie di “affitto veloce” per “creativi”, modelle, manager e consulenti di azienda; delle baracche sorte nei vuoti della città, che vengono distrutte dalle ruspe e che poi risorgono in altri vuoti.
Mai come in questi ultimi anni, Milano è diventata una città di soste temporanee e spostamenti. Un grande territorio che migliaia di individui e di famiglie abitano per ore, periodi, fasi cicliche o intermittenti della propria vita, spesso spostando al suo interno l’ubicazione del luogo dell’abitare.
Ma soprattutto la cronaca ci parla di una temporaneità che è sempre meno l’esito di una scelta consapevole, ma piuttosto una condizione subita, per l’impossibilità di un investimento duraturo su una residenza stabile.

Anche il tradizionale pendolarismo casa-lavoro, che scorre lungo i binari delle Ferrovie Nord, del Passante e delle Ferrovie dello Stato, o nelle oltre 60.000 autovetture che ogni mattina entrano in città dagli svincoli delle tangenziali, da qualche anno ha visto aggiungersi anche una nuova forma, più legata a una condizioni di instabilità sociale. Quella dell’avvicinamento quotidiano pedonale e con i mezzi pubblici al centro urbano da parte di migliaia di cittadini “senza fissa dimora”. Un esercito di individui isolati (2) che, pur svolgendo in molti casi, una prestazione precaria a Milano, hanno un posto letto abusivo negli sterrati, nelle nicchie delle infrastrutture e negli edifici abbandonati che circondano la corona delle Tangenziali.
E se non sono certo una novità i grandi flussi di “city users” (3) che nei giorni festivi e in alcune serate riempiono un centro urbano sempre meno residenziale e sempre più palcoscenico intermittente dei rituali del tempo libero (con grande insensato scandalo di chi continua a pensare Piazza Duomo come un “salotto” di Milano), l’accamparsi in città di migliaia di utenti dei suoi grandi servizi, come le migliaia di studenti universitari fuori-sede che alimentano il mercato nero dei posti letto e del subaffitto è diventato uno degli aspetti più caratteristici della Milano contemporanea.
Un altro esempio di questo fenomeno di residenzialità temporanea a ridosso dei grandi servizi offerti dalla città è quello dei parenti dei pazienti ricoverati nelle strutture sanitarie milanesi; spesso impossibilitati a accedere ai costi di alberghi e residence, sono costretti ad accedere al mercato nero dei posti-letto, o a cercare spazio nelle strutture del volontariato di accoglienza, fino a trovare dimora in spazi provvisori e del tutto inadatti (come le automobili parcheggiate nei pressi dell’ospedale).
E non basta neppure, a spiegare la nuova potenza dell’Accampamento Milano, la lista dei grandi eventi che richiamano ogni anno ondate di popolazioni specializzate di utenti e consumatori (le settimane della Moda, quella del Mobile, il Miart, le Fiere di settore…).
La vera grande irreversibile spinta all’abitare temporaneo – soprattutto a quello che si sposta entro i confini comunali – arriva dalla combinazione tra la crescente precarietà del lavoro e la fragilizzazione della cornice della famiglia (4). Non è infatti solo la distanza geografica tra residenza e lavoro, ma piuttosto una sostanziale instabilità sociale e familiare il vero motore di un abitare temporaneo che rende Milano oggi un grande accampamento in continua ridefinizione.
Nel quale il numero degli individui che si spostano, cercando di adattarsi a nuove condizioni abitative è almeno comparabile con quello degli individui che vi entrano e ne escono a cadenze cicliche.

1.2. Adattarsi
La dimensione temporanea dell’abitare a Milano è intrinsecamente legata al difficile rapporto tra il mutare dei bisogni abitativi e la rigidità dell’offerta di abitazioni.
Non è un caso che ovunque, in qualsiasi circostanza, la cronaca di Milano ci porti a guardare un mondo di azioni, desideri, sforzi volti ad adattare a luoghi di vita e di residenza, spazi nati per tutt’altra funzione.
Milano è oggi una città percorsa in tutte le sue parti da un faticoso, ostinato, molecolare sforzo di adattamento dei propri cittadini a delle condizioni di abitabilità sempre più difficili; e soprattutto instabili.
L’imbianchino quarantenne costretto ad abitare in un garage dell’hinterland, le famiglie rom che occupano fabbriche dimesse insieme a giovani migranti nordafricani, la coppia di migranti sudamericani che abita uno scantinato di 6 metri quadri nel pieno centro di Milano; sono alcuni dei protagonisti di una tensione verso l’adattamento a residenza di spazi incongrui che include anche altri comportamenti meno estremi, ma altrettanto faticosi.
La trasformazione in residenze dei negozi con vetrina, l’utilizzo dell’ufficio per molti pendolari come “stanza provvisoria”, i posti letto negli scantinati affittati dai parenti dei ricoverati nelle eccellenze sanitarie milanesi, sono altri indizi di un processo di adattamento che forse ha la sua espressione più potente e visibile (anche perché legale) nelle centinaia di sopralzi e sottotetti sorti a Milano negli ultimi sette anni (5). Si tratta in tutti questi casi di una moltitudine di piccoli interventi edilizi che, seppur molecolari e frammentati costituiscono nel loro insieme delle formidabili ondate di trasformazione della città; un “modo di cambiare” particolarissimo e tipico della Milano degli ultimi 30 anni.(6)
La lettura dei fatti di cronaca ci segnala come la moltitudine di microtrasformazioni che modifica le condizioni dell’abitare a Milano sia in parte l’esito di dinamiche socio-economiche strutturali (come la crescente precarietà nel mondo del lavoro, i processi di “fragilizzazione” della famiglia, l’articolazione urbana dei fenomeni di immigrazione) e in parte invece l’effetto del concentrarsi a Milano di alcune peculiari condizioni sovra-strutturali. Tra queste, l’assenza di una politica complessiva e lungimirante sulla casa, la scarsità e il degrado dell’offerta di residenza pubblica in affitto, il costo crescente del bene casa nell’intero perimetro comunale, la diversificazione e il potenziamento a Milano di attività in grado di attirare per periodi limitati dell’anno utenti e dunque residenti temporanei.
Le “tattiche” di adattamento che Milano oggi ospita (7), rappresentano una prima efficace classificazione di uno “sforzo sociale diffuso” che non produce grandi trasformazioni edilizie, ma piuttosto una moltitudine di piccoli “sussulti” del corpo urbano di Milano; sussulti spesso invisibili e comunque propensi a mimetizzarsi, anche perché quasi sempre ai limiti della legalità.
L’ adattamento di spazi incongrui (cantine, negozi, uffici, sottotetti, fabbriche dimesse, automobili) affinché diventino luoghi di residenza nasce da uno “sforzo sociale” del tutto interclassista e affidato prevalentemente all’azione privata di individui che agiscono assecondando dinamiche familiari o lavorative, intese nella loro accezione più ampia. E’un’intera porzione della società urbana milanese che, al di fuori da qualsiasi mediazione politica e istituzionale, autorganizzandosi e sviluppando spesso una creatività sorprendente, mossa da disperazione, da preoccupazioni economiche, da necessità di riconfigurare le proprie relazioni di convivenza, sta modificando antiche convenzioni tra gli spazi e i loro originari modi d’uso. Sta trasformando Milano in una città dove l’atto del “risiedere” si rivolge ormai ad uno spettro ampissimo di spazi urbani, ben al di là dei luoghi tradizionali dell’abitare.

1.3. Coabitare
Non c’è vicenda di cronaca sull’abitare che non sia anche un indizio sulle tensioni che plasmano, luogo per luogo, in questa grande città, le relazioni familiari.
Del resto, è la famiglia – la sua deformazione, estensione, caricaturizzazione – a dettare il ritmo delle dinamiche abitative a Milano.
I 6 metri quadri a Lambrate abitati dai membri di una famiglia di immigrati appena ricongiunta, l’impiegato-modello che dopo il divorzio cade nella sfera delle pratiche dell’abitare erratico, l’anziana vedova che accudisce i bambini di un intero condominio, la ragazza madre costretta a vivere da squatter, le migliaia di badanti che accompagnano i gesti quotidiani di una crescente popolazione di cittadini anziani e disabili, la nascita di progetti di “cohousing” per giovani coppie interessate a condividere servizi e spazi semi-domestici: i fatti di cronaca della Milano contemporanea ci investono di una moltitudine di scelte e di spostamenti che svelano la grande turbolenza delle relazioni familiari in una città dove all’invecchiamento della popolazione indigena si sovrappone (spesso negli stessi spazi) una quota crescente di giovani, coppie e famiglie di recente immigrazione.
Così, le scelte di riduzione o miglior sfruttamento del bene-casa per anziani soli, si sovrappongono alle tecniche di adattamento (e accampamento) che rendono abitabili spazi ridotti per famiglie allargate; alle strategie di “bi-residenzialità” (una casa per la famiglia fuori Milano, un piccolo “presidio” usato in rotazione dai suoi membri in città) (8 ) si affiancano le pratiche per valorizzare economicamente – e dunque subaffittare – spazi non più utilizzati della propria casa, oppure la scelta di coabitare tra familiari (oltre il ciclo usuale o addirittura ricomponendo famiglie ormai disperse) per ridurre i costi di stanze e appartamenti.

La lettura dei fatti di cronaca rende – in altre parole – sempre più sfumata l’idea di una casa familiare stabile, un luogo fisso in cui risiedere per lunghi periodi della propria vita. Al contrario, la cronaca di Milano suggerisce l’immagine di una città che sta diventando un laboratorio di sperimentazione di relazioni familiari.
In generale, la geografia del cambiamento, racconta di una città percorsa simultaneamente da due correnti (9). La prima, in forte continuità con la storia recente di questa città-arcipelago, spinge verso la specializzazione di aree e zone di Milano, dove uno stesso modello familiare si replica fino a creare un paesaggio sociale omologato. In queste vere e proprie “isole residenziali a tema”, il mercato delle residenze si irrigidisce fino a definire dei profili precisi e definiti degli utenti: antiche famiglie benestanti milanesi attorno a via Cappuccio, professionisti emergenti in zona Genova-Tortona o alla Bovisa, giovani coppie all’Isola o a Porta Romana, immigrati suddivisi nei quartieri etnicamente connotati di pertinenza (come i nordafricani a porta Venezia o in zona Macciachini). Lasciando alla grande “zona grigia” del ceto medio residenziale la copertura, a macchia di leopardo, delle zone “stabili” della città (è il caso, ad esempio, del tessuto urbano ottocentesco che si sviluppa tra la prima e la seconda circonvallazione).(10)
La seconda corrente, quella della coabitazione, dell’incontro tra culture dell’abitare diverse, delle relazioni familiari allargate, si manifesta invece ad una scala diversa, più circoscritta e puntuale e forse proprio per questo riesce trovare spazi per radicarsi in tutte le isole dell’arcipelago Milano.
Mentre infatti i fenomeni di “mixofobia” (fondati spesso sulla semplice moltiplicazione e segregazione spaziale di organismi familiari semplici e simili) sembrano ricalcare la suddivisione della città in grandi settori di specializzazione residenziale, i fenomeni di “mixofilia” sono sempre legati a macro-situazioni di caseggiato, di condominio, di isolato (11).
Non è un caso che la coabitazione tra individui e gruppi diversi cresca e si potenzi nella condivisione di vantaggi e oneri, nello scambio di favori e aiuti, nella gestione dei servizi domestici e di unità abitativa, nel sostegno psicologico e affettivo tra famiglie diverse che scelgono di valorizzare una condizione di prossimità.
Del resto, il prolungamento dell’età media, l’instabilità dovuta all’incertezza di un posto di lavoro, le difficoltà a reperire abitazioni adatte alle cangianti esigenze di una vita sempre più mobile, spingono infatti oggi milioni di individui e famiglie a coabitare. Si coabita con uno o più “altri” (un parente, un collega, un amico, un socio di lavoro o semplicemente qualcuno che condivide la nostra condizione) per ridurre i costi, aumentare le sinergie e razionalizzare –fosse anche per periodi limitati- il proprio spazio di vita. E si coabita anche per assecondare scelte di vita basate sulla mobilità, e dunque sull’uso temporaneo di spazi domestici dislocati in luoghi distanti (per esigenze di lavoro, di studio, per scelta di vita) dalla casa di famiglia.
Nonostante regolamenti edilizi ottusamente rigidi, nonostante un mercato immobiliare che continua ad offrire appartamenti con tagli anacronostici, gli sforzi per adattare nel tempo la propria dimora a secondo delle nuove esigenze di coabitazione, rendono lo spazio domestico oggi un vero e proprio luogo “a geometria variabile”. Facilitato in questo dalle innovazioni tecnologiche nel campo dei dispositivi domestici.

Coabitazione e convivenza si affermano dunque non come una moltiplicazione dello stesso modello di nucleo familiare che diventa ghetto autoprotetto e isolato, ma come una estensione e complessificazione di relazioni familiari basate sul riconoscimento della differenza. Membri della stessa famiglia che si ricongiungono, dopo anni, per necessità economica e per libera scelta; famiglie che assorbono conoscenti e amici; famiglie “di fatto” e non di sangue che riescono a dare una stabilità residenziale alle loro relazioni affettive.
Come se alla Milano-arcipelago, composta da isole residenziali differenziate e spesso tra loro non comunicanti, corrispondesse una Milano-caleidoscopio che emerge per punti decreti e circoscritti, dove composta da decine di luoghi dove i costumi e le tradizioni familiari invece si mischiano e coabitano.(12)
Famiglie nucleari, famiglie allargate, famiglie miste, “meta-famiglie”. Al centro dei processi del “vivere insieme” c’è quasi sempre il brusio intimo della vita quotidiana e i suoi riflessi negli spazi abitati; c’è sempre un paradigma familiare.

2. I Municipi dell’abitare: una proposta per il diritto alla casa

2.1. Una ricerca-azione
Per esplorare e decifrare le principali caratteristiche della condizione abitativa a Milano, da qualche anno Multiplicity.lab, laboratorio di ricerca del Dipartimento di Architettura e Pianificazione (DiAP) del Politecnico di Milano, ha attivato un osservatorio sull’abitare a Milano (13) che nell’ultimo anno si è focalizzato sul disagio abitativo estremo e sui modelli di accoglienza per le popolazioni escluse dal mercato della casa, con lo scopo di studiare possibili interventi nel campo.
L’osservatorio ha adottato diversi strumenti di ricerca: visite ai luoghi del disagio abitativo estremo, interviste ai protagonisti dell’emergenza casa, incontri con rappresentanti delle associazioni del terzo settore che offrono ascolto, orientamento e assistenza a queste popolazioni e visite a diversi modelli di strutture di accoglienza (14).
Lo scopo dell’osservatorio sul disagio abitativo è quello di raccogliere elementi utili allo studio e alla progettazione di un sistema policentrico di spazi dedicati all’abitare distribuiti nel territorio milanese, che dovrebbero funzionare come modelli sperimentali di residenza temporanea e come erogatori di servizi per garantire anche alle popolazioni più deboli ed emarginate il diritto elementare alla casa e a un abitare dignitoso.
I Municipi dell’abitare, il progetto presentato nella mostra “La nuda vita” alla Triennale di Milano, rappresenta una prima ipotesi che si intende sottoporre pubblicamente al vaglio e alla discussione dei diversi soggetti a cui esso fa riferimento.
Al progetto sviluppato da Multiplicity.lab hanno collaborato con Stefano Boeri, Maddalena Bregani, Anniina Koivu, Giovanni La Varra, Salvatore Porcaro e Federica Verona, gli studenti di ASP Project “Home Emergency” (15), Alta Scuola Politecnico, Politecnici di Milano e Torino e dei corsi “Urban Design Workshop”, Laurea specialistica in Architettura-Master of Science in Architecture, Politecnico di Milano.(16)

2.2. I protagonisti dell’emergenza casa
Il disagio abitativo a Milano ha diversi gradi di emergenza e riguarda diverse popolazioni. Tra di esse la componente immigrata ha sicuramente una parte importante, dal punto di vista quantitativo e per la complessità dei bisogni che esprime. Non possono accedere al mercato della casa gli immigrati stranieri appena arrivati in città per cercare lavoro o per richiedere asilo politico, in quanto non sono ancora in grado di pagare un affitto, perché non hanno ancora un reddito, oppure perché il reddito non è sufficiente o stabile. Dormono per strada o alla Stazione Centrale oppure abitano nelle baraccopoli abusive o negli edifici dimessi; frequentano le strutture di prima accoglienza e le mense per i poveri. É importante notare che mentre fino a qualche anno fa gli immigrati che vivevano questa emergenza erano soprattutto singoli individui che solo dopo avere ottenuto una certa stabilità lavorativa e di conseguenza una casa si facevano raggiungere dalle famiglie, le ultime ondate immigratorie sono caratterizzate dalla presenza di numerose famiglie che si trovano a vivere in condizioni estremamente disagiate (17). La recente politica degli sgomberi degli edifici occupati abusivamente e delle baraccopoli, senza l’offerta di una sistemazione alternativa per i loro abitanti, ha reso ancora più drammatiche e precarie le loro condizioni di vita.
Se per molti immigrati l’emergenza abitativa estrema è solo temporanea e coincide con la prima fase del percorso migratorio, la conquista di una condizione abitativa che possa definirsi dignitosa è comunque molto difficile per tutti gli immigrati che anche quando riescono ad avere un reddito, spesso non possono permettersi che un posto letto in nero in appartamenti sovraffollati o la condivisione di locali angusti e malsani con parenti e amici (18). Questo disagio abitativo accomuna sia gli individui singoli che le famiglie, sia gli immigrati presenti legalmente in Italia, che quelli senza il premesso di soggiorno nonché i richiedenti asilo a cui è stata ufficialmente riconosciuta la condizione di profugo.

Le difficoltà di inserimento sociale delle ultime ondate immigratorie hanno molto a che fare con la generale instabilità e precarietà del mondo contemporaneo. La tradizionale figura di immigrato ha lasciato oggi il posto a nuove figure di migranti che arrivano in città come per caso, senza un progetto migratorio preciso, semplicemente perchè espulsi dal loro paese d’origine da carestie, guerre e repressione politica (19). E se un tempo si concepiva l’emigrazione come un progetto di vita, ossia come una partenza per ricercare altrove un miglioramento delle proprie condizioni, per insediarsi in un paese nuovo dove restare e investire, oggi è sempre più un entrare e un uscire, un arrivare e un ripartire. In questo senso i migranti stranieri fanno parte dell’ampia popolazione degli abitanti temporanei della città, che entrano ed escono dai suoi confini coi flussi della globalizzazione per lavorare, studiare, cercare delle occasioni per costruirsi la propria vita destreggiandosi in una condizione di perenne precarietà (20). “Ma se la precarietà è oggi una condizione comune a molti cittadini, per gli immigrati esiste una condizione per cui questa precarietà diventa qualcosa di politicamente distinto. Questa condizione è il fatto che essi sono soggetti espellibili, deportabili” (21). Una condizione che li rende ancora più fragili e sfruttabili. La negazione del diritto alla casa ribadisce la negazione al diritto alla cittadinanza ed è per loro la condanna alla esclusione sociale, al lavoro nero e allo sfruttamento.

L’emergenza abitativa dei migranti contemporanei è dunque dipendente dalla precarietà della vita che si trovano ad affrontare. Tale condizione di instabilità è condivisa però anche da diverse figure di nuovi poveri che popolano Milano, che non necessariamente sono stranieri. Succede infatti che, per la discontinuità del lavoro e la fragilizzazione dei legami famigliari, cittadini sia stranieri che italiani, possono trovarsi a vivere in una condizione di emergenza, senza un reddito e, di conseguenza, senza la possibilità di pagare un affitto (22). Il giovane italiano che ha lasciato la famiglia e non è riuscito a trovare un lavoro stabile, il cinquantenne che lo perde e non riesce a reimmettersi sul mercato del lavoro, la badante che, alla morte dell’anziano che ha assistito, perde contemporaneamente lavoro e casa, la madre che resta sola e che per accudire i figli minori non può lavorare, le coppie che si separano e che non riescono a sostenere due affitti, possono trovarsi da un giorno all’altro per strada e avere come unica soluzione quella di trovare un posto in una struttura di accoglienza oppure quella di accettare coabitazioni forzate con famigliari o con estranei, con spesso drammatici effetti sulla vita personale e ulteriori difficoltà e ostacoli all’uscita dall’emergenza.
Le figure dei protagonisti dell’emergenza abitativa che abbiamo descritto vivono tutte una condizione di disagio, che forse potrebbe risolversi se avessero semplicemente la disponibilità di una casa, cioè di una base sicura da cui muoversi per affrontare la complessità della vita contemporanea, dove riposare e ricaricarsi dopo una giornata passata a lavorare o a cercare lavoro. E se avessero accesso a servizi di informazione e orientamento per risolvere le difficoltà che tale complessità comporta: assistenza legale, orientamento al lavoro, ecc. Queste persone che avrebbero le energie e le capacità per superare le difficoltà temporanee che stanno attraversando, si trovano spesso però a condividere la stessa vita e gli stessi spazi della città con altre figure più fragili – di italiani e stranieri – caratterizzate da un disagio più profondo e di diverso genere, per le quali quello della casa non è che un problema che si somma ad altri gravi problemi: homeless che vivono un disagio psichico, alcolisti, tossicomani, singoli individui e intere famiglie che si trovano alla fine di un percorso di degrado ed esclusione sociale. La loro condizione di emarginazione a volte è cronica e necessita di assistenza e supporto psico-sociale e a volte è recuperabile attraverso specifici progetti di accompagnamento in strutture protette.
Tra le popolazioni che vivono a Milano in condizioni di estremo disagio abitativo, un caso particolare è quello dei cittadini dell’Europa dell’est di etnia rom. Questa categoria di migranti rappresenta oggi la popolazione più numerosa degli insediamenti illegali (baraccopoli, edifici occupati) e dei così detti “campi nomadi autorizzati” e vive in una condizione di povertà e emarginazione, che viene affrontata per lo più in modi inadeguati e inefficaci dalle istituzioni pubbliche su tutto il territorio italiano ed è oggetto di campagne mediatiche allarmistiche sul tema della sicurezza. A Milano, in particolare, la condizione abitativa delle famiglie di immigrati rumeni di etnia rom giunti in città negli ultimi dieci anni, costituisce una grave emergenza umanitaria. Considerati, a torto, nomadi (in particolare i rom rumeni, nei loro paesi di origine, erano stanziali da secoli) si è pensato, fino a oggi, che la risposta abitativa adatta alle loro particolari esigenze socio-culturali, fossero i “campi temporanei attrezzati”, che hanno rappresentato l’unica alternativa agli insediamenti abusivi offerta dalle istituzioni, secondo una politica di solo ordine pubblico. Sebbene dopo essere emigrati siano costretti a muoversi da un insediamento all’altro in cerca di una sistemazione sicura, mimetizzandosi e disperdendosi nelle pieghe invisibili e marginali della città, ciò che caratterizza i migranti di etnia rom non è il loro nomadismo. Essi si differenziano dalle popolazioni delle ondate migratorie precedenti per due aspetti fondamentali: da una parte il fatto che costituiscono una minoranza etnica che ha vissuto nei paesi di origine e continua a vivere nei paesi in cui emigra, ai margini della società, in condizioni di esclusione e discriminazione. Dall’altra il fatto che essi emigrano muovendosi sempre con l’intero nucleo famigliare e per questo motivo da una parte sono più “ingombranti” e “visibili” e dall’altra, per la presenza dei bambini, più fragili e maggiormente a rischio di emergenza umanitaria. Le politiche attuali nei confronti dei rom sembrano essere incentrate sulla riconferma dell’esclusione sociale di cui essi sono storicamente vittime e sulla negazione dei diritti fondamentali. (23) I “campi nomadi autorizzati” infatti offrono soluzioni abitative assolutamente sotto standard (container e roulotte, in cui vivono ammassate intere famiglie) e costituiscono dei veri e propri ghetti che ostacolano l’inserimento di tali popolazioni nel tessuto sociale della città e alimentano le paure e l’ostilità nei loro confronti da parte degli abitanti dei quartieri dove vengono costruiti.

2.3. Le strutture dell’accoglienza
Milano sta cercando di offrire una risposta ai diversi modi in cui l’emergenza casa si manifesta attraverso una fitta rete centri d’ascolto e strutture di accoglienza, pubbliche e private (24). Ma sono soprattutto le associazioni del terzo settore, laiche e – per la maggior parte – religiose, che si fanno carico dei bisogni che tale emergenza esprime, lavorando sul territorio in contatto diretto con i nuovi poveri, stranieri e italiani, e con le fasce più emarginate della popolazione, cercando di supplire alle evidenti mancanze delle politiche pubbliche.
Tali strutture però non sono sufficienti a rispondere alla domanda, che negli ultimi anni è molto cambiata, per numero e per complessità.
Nelle strutture pubbliche e nelle strutture private convenzionate col Comune, per esempio, non vengono accettati ospiti non in regola col permesso di soggiorno, mentre attualmente l’emergenza abitativa riguarda in buona parte immigrati extracomunitari senza permesso di soggiorno: stranieri appena arrivati in città, profughi richiedenti asilo politico o figli di profughi nati in Italia in attesa del riconoscimento dello status di apolide. E la mancanza del permesso di soggiorno costringe gli immigrati a vivere in un circolo vizioso di illegalità e disagio: lavoro nero, occupazioni abusive e subaffitti, rischi per la salute e per la sicurezza personale.
La maggior parte delle strutture di accoglienza, inoltre, sono pensate per dare ospitalità a singoli individui – maschi e femmine separati – e non a famiglie, mentre negli ultimi anni l’emergenza abitativa più grave è quella vissuta da moltissime famiglie con bambini.
La condizione più drammatica e visibile oggi a Milano è quella delle famiglie degli immigrati dell”Europa dell’est di etnia rom che abitano nelle baraccopoli e negli edifici occupati abusivamente soggetti agli sgomberi spesso senza che sia offerta un’alternativa residenziale d’emergenza in grado di accogliere l’intera famiglia.

Se al dormitorio pubblico si accede semplicemente pagando una minima quota, nelle altre strutture di accoglienza – generalmente gestite dal terzo settore, più o meno convenzionate col Comune – l’ospitalità è vincolata ad un progetto di inserimento sociale. Le strutture di accoglienza offrono infatti agli ospiti un percorso assistito a tappe per raggiungere l’autonomia e l’integrazione sociale e sono generalmente suddivise in prima, seconda, terza accoglienza, a seconda del tipo di ospitalità (dormitorio, casa d’accoglienza, appartamenti protetti, ecc.) e del progetto di accompagnamento che mettono a disposizione degli ospiti. Spesso questa suddivisione risulta però rigida e non adatta a soddisfare quella che è prima di tutto semplicemente una domanda di casa. D’altra parte anche a chi completa il percorso dalla prima alla terza accoglienza e raggiunge la potenziale autonomia e stabilità economica necessaria a sostenere un affitto, sia pure moderato, risulta poi difficile accedere a un mercato della casa che non offre appartamenti a basso costo.

2.4. Nuove politiche per l’emergenza casa

L’emergenza abitava e i processi di esclusione sociale di ampie fasce di abitanti di Milano che sono oggi in atto di cui tale emergenza è sintomo mettono in evidenza i limiti delle politiche dell’immigrazione, delle politiche sociali e, a nostro parere, delle politiche della casa che sono state condotte in questi anni. Come d’altra parte concordano molti degli operatori del sociale che lavorano sul territorio milanese che abbiamo intervistato (25), per affrontare tale emergenza sembra necessario prima di tutto un radicale cambiamento nell’atteggiamento di fondo dell’amministrazione pubblica, tale per cui il diritto alla casa venga davvero considerato un diritto fondamentale da assicurare a tutti indipendentemente dallo status legale di cittadinanza, come l’assistenza sanitaria e la scuola dell’obbligo (e come d’altra parte sancisce la nostra Costituzione).
Questa nuova filosofia dovrebbe essere alla base di politiche per la casa davvero innovative, in grado di affrontare il problema casa nelle sue diverse manifestazioni e nei suoi diversi gradi di emergenza. Le modalità per raggiungere questi obiettivi sono varie e differenziate. Fondamentali sarebbero nuove leggi sull’affitto che, agevolando i proprietari, permettano lo sviluppo del mercato dell’affitto a canoni sostenibili e, contemporaneamente, un piano per l’edilizia sociale che affronti quantitativamente il problema dell’alloggio e nello stesso tempo sperimenti nuovi modelli residenziali adatti alle mutate esigenze della società contemporanea. L’urgente domanda di housing sociale potrebbe venire soddisfatta con maggiori investimenti nell’edilizia popolare (i quattro quartieri del progetto “Abitare a Milano” potrebbero costituire un importante passo in questa direzione) e nello stesso tempo con una gestione innovativa del patrimonio pubblico, che permetta il recupero e la destinazione a residenza di numerosi edifici vuoti o sottoutilizzati, anche con la partecipazione di risorse private. Potrebbero risultare efficaci, inoltre, la sperimentazione – sviluppata con esito positivo in altri paesi europei come la Germania, per esempio, – di forme innovative di utilizzo degli edifici pubblici e privati in disuso (come l’”antisquatting”, ovvero l’affitto come abitazione temporanea di spazi residenziali, industriali, commerciali, temporaneamente sfitti); la concessione in deroga dell’utilizzo di suolo agricolo per edilizia residenziale in alcuni casi legati alle esigenze abitative di particolari comunità; l’applicazione all’housing sociale di metodologie sperimentali come l’autocostruzione.
Per affrontare le mutate domande di residenza di Milano, tra cui anche quelle dei nuovi “nomadi”: lavoratori pendolari e migranti, studenti e una svariata gamma di abitanti temporanei della città., la nuova offerta di alloggi dovrebbe inoltre sperimentare anche nuovi modelli abitativi di residenza sociale temporanea.
Tale nuova offerta abitativa, inoltre, dovrebbe essere progettata in modo da tenere conto della convivenza tra diversi gruppi sociali, culturali, etnici, per contrastare la logica del ghetto e della discriminazione. La coesione sociale dovrebbe essere promossa attraverso la promozione delle reti sociali attive sul territorio che offrono servizi e sostegno all’inclusione delle fasce più emarginate e deboli della cittadinanza milanese e promuovono un atteggiamento di cittadinanza attiva tra i tutti i milanesi, quelli storici, quelli d’adozione e quelli di passaggio.


2.5. I Municipi dell’abitare

Da tempo l’Amministrazione pubblica milanese sta studiando le possibilità di recupero e riuso di oltre quaranta cascine di proprietà comunale distribuite a raggiera all’interno dei confini del comune di Milano, esempi di architettura agricola lombarda di notevole valore storico e culturale, che stanno andando in rovina perché abbandonati o sottoutilizzati.
Punto di partenza del progetto dei Municipi dell’abitare è il recupero di ventuno di queste cascine, che potrebbero tornare a nuova vita senza perdere la loro identità originaria.
La struttura insediativa di tali edifici, la loro ubicazione all’interno della città consolidata, la loro contiguità con aree densamente abitate e con le infrastrutture civili di Milano rendono questo patrimonio un eccellente supporto per immaginare un sistema di “boe” distribuite nei distretti di Milano, destinate a chi è in difficoltà e ha bisogno di una casa.
Le cascine, opportunamente ristrutturate e adeguate negli spazi interni ed esterni, potrebbero diventare luoghi per la residenza temporanea di singoli individui e famiglie, erogatori di servizi per chi si trovi in difficoltà e, contemporaneamente, spazi pubblici aperti al quartiere e alla città.

Ciascuna cascina potrebbe ospitare un rifugio di emergenza di piccole dimensioni, gratuito – il grado zero della casa – per chi è sulla strada e ha la necessità di un posto letto per la notte e di alcuni generi di conforto basilari: un pasto, una doccia. E potrebbe essere inoltre la sede di diversi modelli di residenza sociale temporanea: ostello, residence, appartamenti per famiglie, comunità-alloggio, campeggio. Ciascuno di essi potrebbe dare una risposta diversa, in termini di temporaneità e di spazio, alla domanda abitativa di singole persone e famiglie appena arrivate in città, che vi passano un breve periodo e che stanno attraversando un periodo di difficoltà. Alle diverse tipologie residenziali si potrebbe accedere con due differenti modalità: direttamente a costi moderati e, attraverso la mediazione della rete dei servizi sociali pubblici e privati non profit, gratuitamente o con costi simbolici o attraverso progetti di inserimento sociale. In ciascun edificio si potrebbe riservare una quota di alloggi per ciascuna modalità di accesso in modo da facilitare il mix sociale, evitando la creazione di ghetti del disagio.

Le cascine-municipio inoltre potrebbero funzionare come erogatori di servizi – di assistenza sanitaria, assistenza sociale, assistenza legale, educazione, orientamento al lavoro – dedicati agli ospiti temporanei e a chiunque ne abbia necessità, in collegamento con consultori, ambulatori, ospedali, scuole, centri d’ascolto, parrocchie e organizzazioni pubbliche e del terzo settore che si occupano dell’accoglienza e dell’assistenza delle persone in difficoltà. Si tratta di sviluppare e mettere a sistema una rete già molto diffusa e attiva sul territorio milanese istituendo degli sportelli che promuovano e ottimizzino la sinergia dei diversi attori e orientino gli utenti.

Ma la missione dei Municipi dell’abitare sarebbe soprattutto quella di assicurare a tutti gli abitanti di Milano il diritto alla casa, in accordo con quelle che dovrebbero essere le nuove politiche sulla casa. Per questo motivo ciascuna cascina potrebbe ospitare la sede di una sorta di agenzia cittadina della casa, che gestisca il patrimonio pubblico in modo agile e innovativo evitando che in città rimangano vuoti spazi che potrebbero essere destinati all’abitare; che monitori la disponibilità di alloggi nella città, informi e orienti chi cerca casa e attivi progetti per l’inserimento nel mercato della casa di chi ne è escluso.

Le cascine ristrutturate e riaddattate potrebbero ospitare, oltre alle residenze e ai servizi per le persone in difficoltà, anche spazi pubblici di grande qualità: giardini, campi sportivi, spazi per gli spettacoli all’aperto, biblioteche, sale prova per musicisti, spazi per la didattica. Al loro interno si potrebbero svolgere attività produttive e commerciali gestite da cooperative e associazioni: laboratori artigianali, cooperative agricole, negozi, bar e trattorie. Esse potrebbero diventare gli epicentri di reti sociali di vicinato e cittadine, che qui troverebbero gli spazi e il supporto per la loro attività e la loro funzione di coesione sociale, recuperando così la loro antica vocazione di luoghi della comunità.

Il progetto Municipi dell’abitare è rivolto al Comune di Milano, proprietario delle cascine, che è invitato a lanciare un bando pubblico per la gestione e il finanziamento di ciascun “municipio”. Un bando che dovrebbe rivolgersi da un lato alle istituzioni e ai soggetti milanesi che si occupano dell’assistenza e del sostegno ai cittadini in difficoltà (associazioni del terzo settore, volontariato cattolico e laico) che dovrebbero gestire in regime di concessione le cascine-municipi, e dall’altro alle istituzioni e ai soggetti che potrebbero adottarle, trovando le risorse o finanziandole direttamente.

NOTE:
(1) Il primo capitolo di questo testo è stato scritto da Stefano Boeri, riprendendo il saggio introduttivo scritto in occasione della pubblicazione del libro Milano. Cronache dell’abitare, a cura di Multiplicity.lab, Bruno Mondadori, Milano 2007; le sezioni 2.1., 2.3., e 2.5 da Maddalena Bregani e 2.2. e 2.4. Salvatore Porcaro. Una versione di questo testo è stato pubblicato anche nel Rapporto sulla città Milano, promosso dalla Fondazione Ambrosianeum, Franco Angeli, Milano 2008
(2) Si veda L. Doninelli “L’alba del degrado”, in Milano. Cronache dell’abitare, op.cit.
(3) Si veda G.Martinotti, Metropoli. La nuova morfolologia sociale della città, Il Mulino 1993
(4) Si veda A.Lanzani, “Abitare temporaneo”, in Milano. Cronache dell’abitare, op.cit.
(5) Si veda G. La Varra “Abitare in un sottotetto” e “Abitare in una casa-negozio”, ibid.
(6) Oltre che sui grandi progetti, la cronaca locale continua infatti a inviarci indizi sull’enorme potenza delle microtraformazioni nel generare il mutamento della natura e dell’immagine di Milano e delle sue parti. Quasi fosse una sorta di controcanto ai progetti dei grandi developer internazionali, la Milano dei fatti di cronaca sembra infatti sospinta da migliaia di piccole iniziative di riuso degli spazi e dalla democratizzazione della rendita fondiaria.
Migliaia di proprietari che affittano vani e porzioni di appartamenti; migliaia di affittuari che subaffittano i loro spazi, fino ad arrivare al fenomeno della locazione a rotazione dei posti letto. Un meccanismo diffusissimo di piccole rendite proveniente da piccoli patrimoni immobiliari che muove un’economia in buona parte sommersa, emergente a volte in concomitanza con forme di usura, malessere o a fatti di violenza.
Un sistema pervasivo di piccole rendite, che oltre a rappresentare uno dei tratti distintivi della società urbana milanese, continua ad essere il motore di migliaia di trasformazioni degli usi di spazi residenziali e abitati, come è avvenuto nel caso della realizzazione auto-promossa delle centinaia di sottotetti che in pochi mesi hanno cambiato il profilo della città.
(7) Si veda G. La Varra “Tattiche dell’abitare difficile”, in Milano. Cronache dell’abitare, op.cit.
(8 ) Si veda A. Lanzani, “Abitare temporaneo, abitare in movimento”, ibid.
(9) Si veda C. Novak “Ambiguità del convivere”, ibid.
(10) Le coincidenze tra tipi di case, tipi di abitare e tipi di famiglia che fino a 20, 30 anni fa rappresentavano la chiave per decifrare il DNA di Milano, oggi non ci sono più. Un tempo a Milano le tipologie di spazi corrispondevano alle porzioni di società: l’alta borghesia con coppia di domestici abitava su piu’ piani, in via Cappuccio o in zona Magenta; la famiglia piccolo borghese con madre casalinga negli isolati tra le due circonvllazioni o nei condomini in klincker del secondo dopoguerra; le giovani coppie nelle zone storiche che si riscattano dal degrado; le famiglie operaie nelle stecche e le torri dei quartieri di edilizia popolare. E poi, più fuori, la moltitudine delle villette. Milano era una città fatta di grandi zone omogenee per reddito, cultura, stili di vita. Oggi, tutto questo è cambiato. la crescita dei prezzi delle case e degli affitti, l’esplosione di nuovi modi di “fare famiglia”, i l’accendersi sia in periferia che in centro di aree di forte degrado, I flussi di pendolarismo nella grande area metropolitana, le ondate di nuovi migranti, la presenza ciclica di popolazioni di “residenti a tempo determinato” (buyers, modelle, uomini d’affari, allestitori di fiere, studenti, parenti di pazienti…) sono solo alcune delle forze che hanno sconvolto la geografia dell’abitare a Milano. Creando non più grandi zone omogenee, ma decine di piccole “isole” diverse e intrecciate: nicchie di lusso dentro aree di disagio; luoghi dell’abitare temporaneo a fianco di palazzi di famiglia; comunita’ aperte e miste vicine a comunita’ chiuse e impaurite.
(11) Si veda C. Novak, ibid.
(12) Il tema della coabitazione chiama in causa la quota di “capitale sociale” fisso che ogni comunità è disposta a scambiare con le altre comunità. Riprendendo in questa prospettiva le riflessioni del sociologo americano Robert Puntnam, che distingue tra “capitale sociale di legame” (quello che ogni comunità investe nel consoldiare le relazioni interne e di gruppo), e “capitale sociale ponte” (bridging social capital), che invece viene utilizzato per strutturare relazioni di interscambio tra comunità diverse. Si veda R. Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America. Il Mulino, Bologna 2004.
(13) Una prima parte della ricerca, a cura di Multiplicity.lab, con la collaborazione di Naga, associazione volontaria di assistenza sociosanitaria pe per i diritti di stranieri e nomadi – Onlus, è stata pubblicata nel volume Milano. Cronache dell’abitare, op.cit.
(14) La documentazione dell’osservatorio sull’emergenza casa è consultabile sul sito http://www.cityrom.it.
(15) Tommaso Bramati, Chiara Cannavicci, Matteo Ferranti, Fabrizio Festa, Francesco Franci Roberto Jose Garcia Leone Chiara Geroldi, Murilo Gomes Nagato, Davide Passini, Raffaele Pe, Angela Maria Potenza, Giuditta Vendrame
(16) in particolare gli studenti Mario Abruzzese, Giacomo Cantoni, Eleonora Rizzi, Nina Maccarielo, Pietro Magliaro, Sara Pellegrini, Camila Ramirez, Elian Stefa.
(17) Si vedano F. Parenti “La città invisibile” e C. Pirovano “Abitare nelle baraccopoli” in Milano. Cronache dell’abitare, op.cit., e Abitare la città invisibile. Rapporto sulla popolazione delle baraccopoli e delle aree dismesse millanesi (2003-2004), a cura dell’Osservatorio medicina di strada Naga.
(18 ) Si veda D. Cologna “Abitare in un posto letto per migranti” in Milano. Cronache dell’abitare, op. cit.
(19) Si veda l’intervento di A.Tosi in “Tavola rotonda: Abitare difficile”, ibidem
(20) Si veda A. Lanzani “Abitare temporaneo”, ibid.
(21) Si veda l’intervento di F. Rahola in “Tavola rotonda Abitare difficile” ibid.
(22) Si veda F.Verona “Abitare in un centro d’accoglienza”, ibid
(23) Si veda A. Tosi “Lo sguardo dell’esclusione “, in Vivere ai margini. Un’indagine sugli insediamenti rom e sinti in Lombardia, a cura di M. Ambrosini, A.Tosi – Fondazione Ismu (Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità), Milano 2007
(24) Si veda F. Verona “Abitare in un centro d’accoglienza”, in Milano. Cronache dell’abitare, op.cit.
(25) Si veda la documentazione raccolta nel sito http://www.cityrom.it

Lascia un commento